A cura di Jessica Martino
Tempo fa mi imbattei in una poesia che mi si impresse dentro da subito. Non cercai l’autore o la raccolta da cui, forse, era tratta: mi bastava lei, sola, commovente, di una bellezza inestimabile, impressa dalla prima lettura nella memoria e annoverata tra le mie poesie preferite di sempre.
E così è stato per un bel po’ di tempo, almeno qualche anno: lei, sola, di origine ignota, a prendersi tutto il mio amore, finché, circa due mesi fa, è stata lei a trovarmi. Succede di imbattermi nel titolo Cento Poesie D’Amore a Ladyhawke, del cui autore, Michele Mari, non ho letto mai nulla e, senza indugiare o indagare oltre, decido di leggerlo.
Poche poesie e già so che quest’opera vale, che l’autore ha talento, finché alla settima poesia mi imbatto, inciampo, cado in lei:
“Tu non ricordi
ma in un tempo
così lontano che non sembra stato
ci siamo dondolati
su un’altalena sola
Che non finisse mai quel dondolio
fu l’unica preghiera in senso stretto
che in tutta la mia vita
io abbia levato al cielo”.
Proprio lei. La poesia che tanto amavo e di cui scoprivo le origini, l’autore, la raccolta che la conserva. È proprio vero, a volte, sono le cose a cercare te a trovarti.
Più scorro le pagine e più capisco che ogni poesia è connessa all’altra, che il loro ordine mi sta raccontando una storia precisa, come un romanzo a versi: la storia di un amore celato, conservato e vissuto gelosamente per anni nella mente e nel cuore di un ragazzo diventato poi uomo: Michele Mari, scrittore, traduttore poeta e accademico.
Poesie autobiografiche, le sue, racconto di un amore provato e mai svelato, se non tanti anni dopo, tutto indirizzato alla misteriosa Ladyhawke, anch’essa corporea, vera, reale.
I due si conoscono al liceo, tra i banchi di scuola.
“Dal mio banco al tuo
c’erano tre metri
che non ho mai percorso
Per quel peccato originale
ora salgo su tutti i ponti del mondo
gettati sui fiumi piú larghi
sugli abissi piú fondi
ma dopo appena tre metri
ogni ponte
si sporge sul vuoto”.
Un amore solo suo, platonico, silenzioso, ma non meno intenso e forte di quelli vissuti. Un sentimento alimentato, anno dopo anno, nutrito in perpetuo, per mezzo di immagini idealizzate, ricordi aggiustati, abbelliti, belle fantasie modellate su misura dalla mente. In definitiva, un amore condannato a non potersi mai consumare e per questo destinato a rimanere inconsunto, grazie a quel confronto mai avvenuto con la realtà, le cui dure prove espongono alla riuscita in proporzione assai minori di quanto invece espongano al fallimento. Perché il reale maltratta, consuma, imbruttisce, finisce. E quelli ma iniziati, finiscono per essere proprio gli amori che durano per sempre.
“Non ti ho mai visto i piedi
non ti ho mai visto in camicia da notte
non ti ho mai visto lavarti i denti
e dopo piú di trent’anni
non ho ancora capito
se questo è un bene
o un male”.
Ormai cresciuti, da adulti, i due si ritrovano durante una cena con la classe del liceo e iniziano una corrispondenza tramite e-mail, attraverso cui Mari scopre che il sentimento della ragazza era corrisposto.
“Mai in ogni caso dubitai
che tu sapessi
finché scoprimmo insieme
di esser vissuti trent’anni nell’errore
tu ignorando
io presumendo”.
Lei è sposata adesso, ma diventano comunque amanti, intrattenendosi però ancora nella dimensiona protetta dell’intelletto. Un rapporto amoroso, il loro, che non si realizza mai completamente, che non sfocia nel carnale né si consuma tra beghe della quotidianità. Il sentimento, anche dopo svelato, resta incontaminato: lei è ancora un ideale, il loro legame è ancora idealizzato e i due amanti restano confinati in una sfera semi platonica.
“Non aprite quella porta
non entrate nella stanza 237 dell’Overlook Hotel
ricordati figliuolo che puoi andare dappertutto
tranne che nella soffitta
meglio non guardare cosa c’è
nel frigorifero di Jeffrey Dahmer…
Ogni volta che sei venuta a casa mia
ti sei fermata all’ingresso
al soggiorno
alla cucina
non una sola volta hai chiesto dov’è il bagno
per lavarti le mani
o far pipí
o controllarti il trucco
come se quella che gli architetti chiamano
la zona notte
fosse l’orrore
come bastasse la vista di un letto
ad annullar trent’anni
come se tu ed io
avessimo bisogno d’occasioni
come se i nostri pensieri
non fossero sempre notturni”.
Una raccolta molto citazionistica, lo stesso titolo lo è: Ladyhawke è un film del 1985 i cui protagonisti, a causa di una maledizione, non possono stare insieme e con i cui nomi Mari e la sua amante si firmano. Molti altri i riferimenti ai film, come agli horror e al macabro; così come al poker, alle favole, alla pubblicità: immagini lontane dalla produzione poetica. In contrasto, non mancano riferimenti ai poeti classici, latinismi, frutto della sua cultura accademica. Il risultato è un’opera che spazia e spiazza: esilarante e profonda, moderna e classica, matura e
infantile.
“I poeti latini
avevano una splendida espressione
per indicar le stelle che cadono in estate:
labentia signa
cioè segni scivolanti
Tale mi sembra il tempo
in cui ci siam baciati
scia luminosa
passata troppo in fretta”.
Lui, adesso che l’ha ritrovata, vorrebbe vivere questo amore, ma lei, forse per la paura di abbandonare la certezza del “mulino bianco” per lo sbaraglio di un amore adolescenziale, o perché non innamorata a tal punto da lasciare il marito per lui, prima gli dice di potergli dare un posto nel suo cuore ma non nella sua vita e poi gli chiede di sparire.
“È degli addii
fissare per sempre
le posizioni
Fossi sparita tu
il lascito sarebbe un frullo d’ali
e il lutto
avrebbe il colore dell’aurora
Avendomi chiesto che fossi io a sparire
mi resta la memoria della mano
che ho lungamente lambito con la lingua
prima di rinselvarmi
nella foresta dove sempre è notte”.
Cento poesie d’amore a Ladyhawke è il diario segreto di un amore, di un’ossessione: una cantina infestata dai fantasmi a cui si affeziona così tanto da non volerli lasciare, fino a chiudersi volontariamente nella cantina con loro. Una raccolta intrisa di contraddizioni, ossessioni, amori, tormenti che l’essere umani comporta. Dimensioni intime, private, queste, che si tende a celare e che invece Michele Mari ha messo nero su bianco e donato al mondo. Doppia prova di coraggio, dunque: la prima a livello umano; la seconda a livello letterario, col suo cimentarsi, da autore in prosa, in un esordio da poeta.
Un esordio poetico sperimentale che funziona, colpisce l’obiettivo di centrare il cuore del lettore. Pur non riuscendo ad apprezzare tutte le poesie allo stesso modo, ahimè, ci sono pezzi, frasi, pensieri, immagini che mi hanno causato un forte fragore dentro di cose rotte. E quando un poeta, uno scrittore, riesce a romperti, a spezzarti, vuol dire che, nel complesso, ha fatto bene il suo lavoro.
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I ritardi, i silenzi e le paure che hanno condannato questo amore all’evanescenza, senza permettergli di farsi corporeo, lasciano un amaro difficile da mandar via. E questo primo tentativo poetico di Michele Mari, come quell’amaro, resta dentro.
“Se mi emoziona
pensare una targhetta sul citofono
con i nostri cognomi congiunti
se prima di addormentarmi
mi studio di variarla
in ottone
in ferro smaltato bombé
in plastica oro a caratteri rossi
in plastica grigia a caratteri blu
in cartoncino manoscritto
nell’antica striscia del dymo
immagina
quanto male mi faccia
pensare a un figlio in cui congiunti
fossero i nostri occhi”.
Michele Mari è un genio; ha scritto libri molto diversi tra loro, ma quelli che amo di più sono due sull’infanzia: Tu sanguinosa infanzia e Leggenda privata. Sono straordinari.
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Letti entrambi, sia Sanguinosa infanzia che Leggenda privata. Penso che in Leggenda privata la penna di Mari sia al suo massimo splendore. L’ho amato.
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Leggenda privata è magnifico!
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