Quelli che hanno paura: un romanzo che ci fa diventare tutti siriani, fino a vivere e comprendere il dramma della guerra.

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A cura di Jessica Martino

“Io, di solito, non faccio che rimproverarmi, che sgridarmi, che punirmi per cose che potrei aver fatto, o non fatto. Tutto quel che succede al mondo ha a che fare con me, me ne accollo la colpa come se in parte ne fossi responsabile. Probabilmente perché esisto. Il semplice fatto di esserci, in questo mondo balzano, mi rende responsabile di parte delle sciagure che lo investono.”

Passo tratto dal romanzo.

Dima Wannous la rivoluzione siriana la conosce benissimo, così come la paura. Nata a Damasco nel 1982, studia letteratura Francese all’università di Damasco e poi alla Sorbona di Parigi. Scrittrice e traduttrice, scrive per il Washington post e per i giornali arabi Al Hayat e Al Safir, giornale storico, stravolto anch’esso dalle guerre e le alterazioni politiche che hanno colpito il Medio Oriente, fino a chiudere nel 2016 dopo oltre quarant’anni.

Come venti milioni di siriani, anche Dima era pronta per la rivoluzione. Dopo quarant’anni, subordinata al regime totalitario della famiglia alawita degli Assad, nel 2011 la Siria chiede l’affermarsi della libertà, della democrazia e della dignità, dopo la presa di potere di Bashar al-Assad, succeduto al padre Hafez al-Assad. Scesi in campo a manifestare pacificamente, i siriani volevano delle riforme; in risposta, dal regime, carri armati e spargimenti di sangue. Da lì, la voglia di rovesciarlo, quel regime, di far cadere la struttura monopartitica vigente. Una rivoluzione umana e civile che sfocia in una terribile guerra, o forse è il caso di parlare al plurale, di guerre, tra fazioni, confessioni religiose, poteri, interessi che hanno fatto perdere di vista il fulcro, l’obiettivo di quella rivoluzione che altro non era che il grido di un’umanità per l’umanità. Un’umanità ormai avvilita e deturpata da una guerra che dura tutt’oggi. Perché, in questo marasma, a pagarne le peggiori spese è stata ed è proprio l’umanità: i civili scesi in campo per i diritti umani e, paradossalmente, proprio violati di quei diritti, attraverso sequestri, torture e uccisioni di massa.

Visti i terribili risvolti della rivoluzione, Dima è costretta a scappare in Libano, a Beirut, col figlio. La paura diventa parte integrante del suo essere. E, se è vero che si scrive di ciò che più si conosce, Dima scrive proprio di lei: della paura. Inizia il romanzo a Damasco; poi ha un blocco, non riesce più a scrivere per anni, perché la paura annichilisce e paralizza, fino a renderci incapaci di agire.

I due protagonisti del romanzo hanno paura anche loro. Suleyma e Nessim si incontrano nell’ambulatorio di Camille, uno psicologo. Suleyma lo osserva: il suo aspetto, il suo atteggiamento le danno un senso di solidità, di sicurezza, di stabilità, tanto da chiedersi per quale motivo lui sia lì, con quel torace forte, ampio che sembra inalare tutta l’aria del mondo, mentre lei annaspa, in preda agli attacchi di panico.

Ma le apparenze, come sempre, ingannano. I due cominciano a frequentarsi, a conoscersi, e Suleyma scopre tutte le sue fragilità e fobie. Nessim è un medico e anche uno scrittore. Suleyma, è un’artista, dipinge. La ragazza cerca i suoi libri in tutte le librerie che conosce (google è vietato dal regime), ma non li trova.

“Più tardi, ho saputo che pubblicava con uno pseudonimo. «Hai paura che se la prendano con te?» gli ho chiesto. Ha scosso il capo. «No, ho paura della paura.» […] «La paura della paura». Era esattamente così che vivevo, con la paura della paura. La paura non si manifesta in un unico modo né vuol dire una cosa sola, però la paura della paura accomuna chi la prova.”

Tra di loro nasce un amore: le tragedie, e le paure personali si uniscono proprio agli albori della rivoluzione, nel 2011, e durante lo scoppio della guerra civile sono costretti a separarsi: Suleyma resta a Damasco con la madre, donna ferma, immobile, sulla pagina 24 di un libro, in attesa di ricevere notizie di suo figlio Fu’ad, fatto sparire dal regime; mentre Nessim, che ha perso la madre e la sorella nei bombardamenti, fugge in Germania col padre, effetto da paralisi e demenza senile.

“Nessim, per raggiungere la Germania, ha percorso la stessa via assieme al padre paralitico e impazzito? Non gli ho chiesto, all’epoca, come ha fatto a portare suo padre sulla barca, e poi dalla barca alla spiaggia, e poi dalla spiaggia al confine greco, e poi dal confine greco fino in Germania. Quanto è stato massacrante quel percorso? Come hai fatto a reggere tutta quella fatica, come hai fatto a portare tuo padre, tu che, quando sei attanagliato dal panico, non riesci a portare nemmeno te stesso?”

Il loro amore continua, nonostante la distanza, attraverso una flebile e debole linea telefonica e, soprattutto, attraverso il manoscritto che Nessim spedisce a Suleyma, incompleto, la cui protagonista come lei, ha paura; come lei è in cura da uno psicologo di nome Camille; come lei ha perso il padre da bambina. Seppur le storie delle due donne non siano del tutto uguali, Suleyma sente che Nessim, nel tratteggiare la protagonista, “si sia impossessato di lei”.

Quella distanza rende il loro rapporto altrettanto distante e fragile. La guerra danneggia le persone e le relazioni; poi complice il ritrovamento a casa di Nessim di foto che lo ritraggono con altre donne e di necrologi scritti su suoi familiari e anche su di lei, portano Suleyma a chiedersi se non abbia inventato e amato un uomo che non è mai esistito.

Il racconto del romanzo si alterna tra la storia di Nessim e Suleyma (raccontata dal punto di vista della ragazza), e quella della protagonista senza nome del manoscritto di Nessim, la cui identità verrà poi fuori.

“Mi stava portando per gradi verso la parte traditrice delle mie fantasie. Perché la mia infanzia e la mia adolescenza non sono state sempre e solo infelici. Nei primi anni, è indubbio, quell’inferno mi è stato risparmiato; la felicità, però, non mi si fissa nella memoria. È un’ombra flebile, delicata e passeggera, che svapora di colpo davanti alla tristezza. Soltanto la tristezza rimane lì, pesante, a gambe incrociate, a proiettare la sua ombra a destra e a manca, a rubare spazio alle altre emozioni, tanto che mi immagino di aver vissuto sempre e soltanto lei.”

Passo tratto dal manoscritto di Nessim.

La guerra è un mostro che crea mostri. Sconcertanti le parole che una cugina scrive alla protagonista del racconto di Nessim, solo perché la madre è di un’altra confessione religiosa.

“Non mi auguro che ammazzino tua madre, no. Però spero che ti violentino e che ti sgozzino davanti a lei, così che la sua vita diventi una tortura. […] Erano andati a dormire e, al risveglio, avevano scoperto che mia madre è sunnita. Mica se ne erano accorti, in tutti gli anni in cui ha vissuto con mio padre, insieme a loro in paese, nella nostra casa di Damasco e persino a casa di alcuni di loro. La rivoluzione ha aperto i loro occhi, glieli ha fatti spalancare sulla sua confessione sunnita. Lei, invece, lei che non ha mai inveito, che ha sempre respinto gli appelli ad ammazzarci tra noi, non ha dovuto scoprirlo, che loro sono ‘alawiti. Lei lo ha sempre saputo e, ai suoi occhi, nemmeno le bestie che sono uscite a frotte dalle loro bocche, dalle loro mani e dalle loro anime, li hanno fatti diventare ‘alawiti. Anzi, ai suoi occhi, se si sono abbruttiti è perché sono fatti così, non certo perché appartengono a una confessione.”

Quella dei siriani è una storia di umiliazione e paura che comincia da piccoli, a scuola, dove i figli dei personaggi più potenti incutono timore e infliggono umiliazioni a quelli provenienti dalle famiglie più “deboli”. A scuola si studia l’educazione militare e le disparità sociali, di classe, sono marcate e ostentante: c’è chi viene istruito per padroneggiare e chi per subire e tacere.

Hanno paura i grandi. Ha avuto paura il padre di Suleyma, medico fuggito dalla sua città, Hama, durante lo spietato massacro del 1982.

Hanno paura i giovani che, assieme alle paure intime e personali legate al loro tempo, hanno ereditato anche quelle dei genitori.

Ha paura chi resta e ha paura chi scappa.

Ha paura la stessa scrittrice. Anche lei, come Suleyma, Nessim, tutti i personaggi di questo romanzo e milioni di siriani è figlia di generazioni vessate da conflitti e paure.

Quelli che hanno paura è un romanzo che ho apprezzato dalla prima pagina all’ultima, per lo stile della scrittrice, per come ha saputo ben descrivere i tanto delicati, e non semplici da trattare, argomenti della guerra e delle ansie, paure, fobie, attacchi di panico, stati di tensione e annullamento generati da così gravi conflitti.

Problemi e difficoltà interiori che sono, allo stesso tempo, in linea generale, uno stato psicologico in cui si può ritrovare chiunque e sentirsi compreso, a prescindere dalla guerra e dalle vicissitudini di vita, grazie alla chiarezza con cui ha saputo trattare i tanto astrusi meccanismi della mente umana e delle paure che ci si annidano dentro, fino a fare del nostro corpo la propria casa.

Un romanzo, questo, di cui consiglio vivamente la lettura, a piccole dosi, però. Non è semplice, a volte, è quasi violenta e si avverte un urgente bisogno di staccarsene perché così potente da trascinare lo stesso lettore in un turbinio di perdite di senso tra fantasia e realtà, angoscia, smarrimento, disperazione; per poi avvertire lo stesso urgente bisogno di farvi ritorno per conoscere, comprendere. Perché, come dice Suleyma: Il semplice fatto di esserci, in questo mondo balzano, ci rende responsabile di parte delle sciagure che lo investono.

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